Scegli la vita, scegli Facebook, Twitter e Instagram e spera che a qualcuno, da qualche parte, importi qualcosa. Scegliete di cercare vecchie fiamme desiderando di aver agito diversamente. E scegliete di osservare la storia che si ripete…
T2 Trainspotting, ovvero 20 anni dopo. Con esso un nuovo Choose Life, meno vitale, estremamente forzato, infarcito di troppo obbligate frasi fatte dei giorni nostri. Uno scegli la vita decisamente non in grado di parlarci davvero della Vita. È dal confronto tra i due monologhi – da ascoltare e riascoltare quello del ’96, sulla via del dimenticatoio quello del 2017 – che può nascere (e potrebbe anche morire) la nostra recensione di T2 Trainspotting, l’atteso sequel del cult anni Novanta diretto da Danny Boyle.
Quattro strade diverse
Mark Renton (Ewan McGregor), fuggiasco ad Amsterdam e reo di aver fregato i propri amici e compagni di eroina – fatta eccezione per Daniel “Spud”- torna dopo venti anni nella natia Edimburgo, respinto indietro dalle onde di una vita privata sì più regolare, ma decisamente fallimentare. Un passo alla volta, Rent Boy dovrà quindi affrontare i fantasmi e le macerie appartenenti al proprio passato.
Si comincia con la famiglia, ormai ridotta alla sola figura di un padre stanco e vecchio che per vent’anni ha conservato immodificata la stanza del proprio figlio. Qui ha inizio il viaggio a ritroso del nostro ex tossico, qui ha inizio, brutale, la nostra malinconia.
Uno ad uno, gli altri protagonisti della pellicola vengono risvegliati dal letargo lungo due decenni e ripuliti dalla coltre di polvere che li ricopre. Sick Boy (Jonny Lee Miller) ora gestisce il vecchio pub della zia, ma la sua vera attività è il ricatto di ricchi pervertiti. Per Spud (Ewan Bremner) il tempo non sembra molto passato, è rimasto un tossico e, tra una dose e l’altra, venti anni, un divorzio e un figlio sembrano scivolati in un attimo. Begbie (Robert Carlyle) è invece nel frattempo finito in prigione, ma le strade dei quattro – come prevedibile – son comunque destinate ad incrociarsi.
Cosa era Trainspotting
Nel chiederci se T2 Trainspotting sia un film fatto bene, la risposta è un sì deciso. La prima domanda, però, è un’altra. Ne avevamo bisogno? Seppur non sbilanciandoci – lasciando che sia lo spettatore a dare una risposta definitiva – proveremo a farvi capire cosa ne pensiamo.
Trainspotting è un film brillante, innovativo, che ribolle di una vitalità che sembra poter esplodere da un momento all’altro. Ci parla di quello che il sottobosco urbano può offrire a dei giovani che si ribellano alla quotidianità e – soprattutto – ci parla, a suo modo, della vita. Un inno generazionale che finisce col divenire transgenerazionale, un urlo liberatorio gridato in faccia alla banalità, al buonismo, al perbenismo, all’ipocrisia (che prendono forma nel lavoro, nella famiglia, nella carriera, in un maxi televisore del cazzo, nel colesterolo basso, in un mutuo).
L’eroina come metafora di evasione si concretizza in una pellicola che ha cambiato per sempre il modo di raccontare la droga sul grande schermo, affiancando pennellate grottesche, spigoli scheggiati e duri ad una cinica ironia che fa da spina dorsale ad un lavoro in cui Danny Boyle si è divertito a sperimentare e a giocare molto. In una parola, parliamo di un cult. Di qualcosa che fino al giorno prima era impensabile e che il giorno dopo è entrata nella storia del cinema.
Cosa è T2 Trainspotting
E T2 Trainspotting? È ben prodotto, ben girato, encomiabile per lo sforzo di non auto-vincolarsi nei canoni narrativi del film del 1996. Non ci parla più di droga, non ci parla in alcun modo di evasione, non ambisce a divenire una bandiera, non persegue l’irraggiungibile sogno di tornare ad essere un cult. La scelta è quella di parlarci di quattro amici maschi di mezza età, ognuno a suo modo con la vita distrutta da scelte che affondano radici nell‘agrodolce giovinezza trascorsa insieme. La prospettiva è completamente invertita. Non più quattro giovani incapaci di tollerare un’esistenza normale, non accettando per buone le false promesse del benessere economico e sociale: qui abbiamo quattro uomini inariditi, ingrigiti (non solo nel capillizio), con poco o nulla da offrire al mondo, saturi di cinismo, frustrazione, rimorsi. Si passa da uno sguardo nell’orizzonte del futuro, ad un continuo rovistare nel bagaglio dei ricordi. Se Trainspotting è un lavoro liberatorio, T2 finisce con l’essere opprimente, impudico nel mostrare cosa c’è dopo la chiusura del sipario del suo predecessore.
Nostalgia canaglia
Di una cosa il film è ricco. Malinconia, a tonnellate. Il continuo mostrarci immagini e momenti del passato, i racconti scritti da Spud, trasformano la pellicola in una nuvola di nostalgica malinconia che avvolge, materna, lo spettatore dall’inizio alla fine, coccolandolo fino quasi a commuoverlo. Ogni fotogramma sembra un monito, da cui non si scappa: i fasti e le bravate, l’istinto vitale, (l’eroina), la ribellione della propria giovinezza sono ineluttabilmente destinati a finire. T2 è l’amara realizzazione che lo scorrere del tempo fa schifo, ma schifo davvero. C’è un momento della propria vita in cui si ha un qualcosa di irripetibile, fragile e bellissimo. Nulla di concreto, semplicemente un qualcosa in più. Ecco, T2 Trainspotting è la spietata sentenza di morte di questo qualcosa.
Va dato a Danny Boyle il merito di aver fatto un film diverso, che non prova a ricalcare le impronte ormai sbiadite del successo del passato. Per carità, T2 Trainspotting è un film con poche ambizioni, privo di ampio respiro, incapace di stupire e di innovare; ma è proprio questo voluto low profile a salvare la pellicola da una disfatta, consegnandoci un lavoro – come detto – ben fatto e molto godibile, ma ben lungi dall’essere un gran film.
A voi dire se valeva la pena girarlo o meno, a noi dirvi che probabilmente di meglio non era possibile fare.