Ben Affleck non sembra ricordarsi di aver svestito i panni di Batman e conferisce a The accountant, action movie diretto da Gavin O’Connor, una spropositata verve supereroistica che decisamente stona, mancando completamente il bersaglio. In tutta sincerità, non che ci aspettassimo il film dell’anno (anzi), ma mi sembra che qui abbiano davvero esagerato. Se volete, vi spieghiamo il perché.
Per fermarmi ci vuole Ben Affleck
Chris Wolff (Ben Affleck) è un uomo affetto da autismo ad alto funzionamento (ossia il classico clichè cinematografico fatto di sorprendenti doti intellettive, comportamenti stereotipati ed un severo deficit dell’interazione sociale) e – casualmente – è un genio matematico. Fin qui nulla di nuovo sul fronte occidentale, ma andiamo oltre. Il nostro protagonista mette il suo talento al soldo di potenti e tentacolari organizzazioni criminali, lavorando per esse come contabile e costruendo per se stesso un’invidiabile fortuna finanziaria. Non solo, Chris è al tempo stesso anche un fisicato conoscitore di ogni arte marziale, nonché un eccelso tiratore, ricercato sia dai buoni che dai cattivi, ma in grado di affrontare militarmente ogni spiacevole situazione, uccidendo chiunque intercida la sua strada. Eppure non stiamo parlando di un super cattivo di marvelliana matrice, il Nostro è infatti animato da un personalissimo codice etico fondamentale in parte per accattivare le simpatie del pubblico (per lo più non riuscendovi), ma anche e soprattutto per porre le basi di uno scontato (mezzo) lieto fine hollywoodiano.
Probabilmente una buona parte dei lettori, avendo capito l’antifona, non si inoltrerà ulteriormente tra le labirintiche righe di questa recensione. Bene, lo scopo di questo mini sunto del plot era esattamente questo. Per i più coraggiosi – o per i più duri di comprendonio – spiegheremo perché una simile accozzaglia di stereotipi può forse piacere ad una sottile fetta del grande pubblico a stelle e strisce, ma di certo non a noi di Moviesource.
The accountant, ovvero un calderone di stereotipi
Innanzitutto, tanta, troppa carne al fuoco e – come sovente accade – rimane quasi tutta poco cotta. Nel calderone di questo film ci sono troppe cose, troppi spunti narrativi che finiscono ognuno con l’essere ingiustamente trascurato. L’eccessiva quantità di materiale che galleggia in questo brodo informe è, per di più, il peggio del peggio che Hollywood sa offrire. Gli ingredienti sono facili a elencarsi. Machismo fine a se stesso; sentimentalismo spicciolo; dialoghi piatti e disarmanti. L’autismo, tema complesso e malattia drammatica, viene affrontato – come spesso accade sul grande schermo – con una banale superficialità che non solo irrita, ma dovrebbe anche fare incazzare. Siamo anni luce dalla sensibile credibilità di Dustin Hoffman in Rain Man, qui (nonostante Ben Affleck affermi di avere a lungo studiato e frequentato cliniche specialistiche per entrare nelle dinamiche comportamentali e relazionali del personaggio) siamo di fronte ad un modo irrealistico, tangenziale ed insipido di affrontare l’argomento. Per carità, la sospensione dell’incredulità è sempre d’obbligo quando si entra in sala, ma qui siamo davvero oltre, finendo con lo sfociare in un film supereroistico sotto le mentite spoglie di un action movie melenso. Il tutto condito con una serie eccessiva di flashback relativi alla difficile infanzia del protagonista, alle prese con un padre-padrone, ufficiale dell’esercito convinto che solo un rigido addestramento militare possa salvare il figlio dall’autismo. Si aggiunga alla ricetta il fatto che la solida rigidità sociale del protagonista viene messa in crisi dal bel visetto di una ragazza e si concluda il tutto con l’incontro-scontro finale con la nemesi, che – colpo di scena! – è una sua vecchia conoscenza: momento ideato come climax del film, ma costruito con una banalità così violenta che è difficile credere non sia voluta. Non amo interrompere a metà un discorso, ma dovrei davvero aggiungere altro?