Anche American Crime Story 2: The Assassination of Gianni Versace, nuovo capitolo del ciclo antologico creato da Ryan Murphy e trasmesso da FX, si è concluso dopo nove, sorprendenti episodi. Sorprendenti per coloro che si aspettavano un approfondimento dell’ancora oscuro e dibattuto crimine che nel 1997 ha scosso il mondo intero. Sorprendente per chi si aspettava di penetrare nella ricostruzione della vita dello stilista italiano. Sorprendente per chi si aspettava di vedere Gianni Versace e invece ha trovato Andrew Cunanan. E non necessariamente tale sorpresa è risultata gradita.
Infatti se dopo la prima, giustamente pluripremiata stagione The People vs O.J. Simpson, era legittimo aspettarsi una narrazione incentrata sui fatti, le contraddizioni, i retroscena sottesi all’omicidio che ha segnato la moda, in The Assassination of Gianni Versace tutti questi elementi sono ben sceneggiati ma compaiono in maniera sporadica, facendo capolino tra il delirante soliloquio dell’istrionico killer, magistralmente interpretato da Darren Criss. E’ il suo personaggio la spina dorsale dell’intera serie, opportunista, manipolatore e sofisticato, bugiardo, col disprezzo dell’ordinario e del duro lavoro.
E’ quindi inevitabile percepire una certa pretestuosità nella scelta del soggetto, finalizzata a dare maggiore risalto a quello che emerge come il vero tema dello show: il modo di vivere l’omosessualità. Infatti è attraverso gli omicidi compiuti da Andrew che si svela la coltre di bugie, ipocrisie e tabù di cui la vita di ciascuna delle vittime, tutte gay, si circonda, ricoprendosi di successi professionali, ricchezza e false apparenze, nei più diversi contesti: lo sprezzo beffardo della polizia, la difficoltà del coming-out con famiglia e investitori che non risparmia neanche un uomo affermato come Versace, l’ostinata negazione della vedova Miglin (Judith Light) , l’omofobia nell’esercito e il disconoscimento del ruolo di partner di Antonio dopo la morte di Gianni. Rappresentazioni di realtà complesse eppure tanto tipiche, che lo sceneggiatore delinea con molta sensibilità ed efficacia grazie alla sua nota capacità nel gestire la focalizzazione e i parallelismi. Tra questi spicca proprio quello tra la vittima e il carnefice, sviluppato dall’ infanzia, ai rapporti con la famiglia, alla differente propensione alla fatica. Un’antitesi che si fa prolungamento si sé nella mente frustrata di Andrew, che non perdona a quella che ritiene essere un’anima affine di aver raggiunto il trionfo.
E’ proprio qui che la detta prevalenza fra le due linee narrative, tutta a discapito del protagonista annunciato, si esplica. La scelta di sovrapporre al mistero della morte di Versace la rivelazione delle vite delle altre vittime di Cunanan e la genesi della sua furia omicida senza un bilanciamento tra i due poli è con ogni probabilità consapevole, e pur avendo centrato il proprio obiettivo personale, Murphy ha sacrificato quello che sulla carta avrebbe dovuto essere il fulcro dello show. Scelta non opinabile quella di uno degli showrunner del momento, se non fosse che il titolo della serie e la promozione stessa, incentrata su poster dei membri del clan Versace, (Edgar Ramirez, Penelope Cruz e Ricky Martin), lasciavano presagire uno show incentrato più sulla celebre vittima che sul carnefice. Sarebbe stato forse più onesto parlare di The Assassin of Gianni Versace più che di “Assassination”.
Tale scelta è andata a discapito di una linea temporale difficile da gestire. L’intreccio con cui si è deciso di disporre gli eventi è ricco di digressioni che arrivano a diventare il motore dell’azione, quasi tutte sorrette dalla personale interpretazione dell’ideatore, nella sua ricostruzione della psiche di un uomo pluriomicida restato per lo più sfuggente nella realtà storica dei fatti. Troppe le lungaggini sentimentali, troppa prolissità a causa di ripetuti richiami ai medesimi avvenimenti, troppo spazio alla commozione. Si fanno grossi balzi che richiedono la massima attenzione dello spettatore, soprattutto all’inizio, secondo lo stile che caratterizza i lavori di Murphy.
Con questi ultimi, The Assassination of Gianni Versace ha in comune anche la molta cura dei dettagli, dalla scenografia che specialmente nel primo episodio pullula di lusso e miseria, in un perfetto connubio tra kitsch e lirismo, in linea con lo stile di Versace, classicista ed eccessivo. L’eleganza dell’Opera, l’opulenza della villa di Miami, di mosaici e drappi pompeiani, la luce strobo delle discoteche, si scontrano con le squallide stanze di motel in cui si consumano i tossici e il malato di AIDS Ronnie (Max Greenfield) e con spoglie e asettiche scene del crimine. Massima attenzione anche nella somiglianza fisica tra i membri del cast e i loro omologhi reali, nei costumi, nell’atmosfera anni 90 di spiagge, locali e musica. Alto anche il livello della performance globale del cast, per la maggior parte già ampiamente collaudato da Murphy, senza escludere l’eccellente lavoro dei personaggi secondari, Joanna Adler, la mamma di Andrew, in testa.
La fine della serie chiude il cerchio tornando al suo inizio. L’ipocrisia segna il punto della vittoria prorompendo dai microfoni porti ai familiari delle vittime e dall’esclusione di Antonio dalla famiglia Versace. La solitudine di tutti i protagonisti scrive un triste finale che lascia sul campo solo vinti. Il messaggio di Murphy non potrebbe essere più chiaro, e si palesa come il reale intento di The Assassination of Gianni Versace, un lavoro profondo e sofferente, a tratti prolisso ma innegabilmente intenso, purtroppo quasi del tutto incoerente con l’intenzione dichiarata, per cui molti fan storceranno il naso.