Dopo il mockumentary Troll Hunter – apprezzato da critica e pubblico – il regista norvegese André Øvredal presenta il suo primo lavoro anglofono, The Autopsy (titolo originale: The Autopsy of Jane Doe), ambientato in Virginia ma ben poco americano. La produzione è inglese e il film è stato girato nel Regno Unito, aspetti comunque poco importanti in quanto la location protagonista è un obitorio, stretto, poco illuminato e sconsigliato a chi soffre di claustrofobia.
Il film è stato presentato a settembre al Toronto Film Festival 2016 nella sezione Midnight Madness, premiato dal pubblico con un secondo posto. Uscito nelle sale statunitensi a dicembre, The Autopsy ha fatto parlar di sé e dimenticare l’osannato The Witch, considerato da molti – prematuramente – il miglior horror degli ultimi anni, con aspetti (addirittura) rivoluzionari.
Forse le rivoluzioni esistono, ma fuori dal suolo americano.
Senza una causa di morte
In Virginia la polizia è su una scena di un crimine che prevede un grande lavoro e un famelico interesse da parte dei media: il massacro di una famiglia. Lo sceriffo Burke (Michael McElhatton, il Roose Bolton de Il Trono di Spade) deve però giustificare la presenza di un cadavere di troppo, che non sembra avere alcun legame con gli altri omicidi: il corpo immacolato di una giovane donna che ha bisogno di trovare una collocazione nella vicenda.
Con l’avvicinarsi del tramonto, in un obitorio la giornata di lavoro sembra giunta al termine per il medico legale Tommy Tilden (Brian Cox) e il suo assistente – nonché figlio – Austin (Emile Hirsch), il quale ha in programma una serata di cinema con la sua ragazza Emma (Ophelia Lovibond). Quando Burke arriva col cadavere della donna – chiamata per convenienza Jane Doe – c’è del nuovo lavoro per il dottor Tilden. Austin potrebbe andare via, ma decide di posticipare lo spettacolo al cinema poiché non vuole lasciare suo padre da solo: nonostante siano passati due anni dalla morte della moglie, l’uomo è ancora in lutto e Austin cerca di stargli vicino il più possibile, motivo per cui trova molto difficile ammettere che non vorrebbe continuare la professione di famiglia.
Padre e figlio iniziano così l’autopsia della misteriosa ragazza (il cui corpo è prestato dall’affascinante Olwen Kelly) che non presenta segni di colluttazione, bensì polsi e caviglie spezzate che non ne giustificano la morte. Ma la singolarità vien via via sostituita all’incredibile, non appena Tommy incide il corpo della donna: inspiegabilmente esce molto sangue, svelando dettagli che complicano sempre più l’indagine.
La qualità umana accantona l’orrore
Il cinema thriller/horror ci sta abituando sempre più al sensazionalismo degli effetti speciali, del raccapricciante, delle torture e del sesso, e sembra aver dimenticato di inserire umanità. Più il cinema è alienato da essa, più è alienato dalla razionalità, da una sceneggiatura coinvolgente e sensata che – talvolta – sembra persino non esistere, tanta è la prevedibilità e/o l’eccesso, come se il soggetto non avesse briglie legate a una regia. Øvredal però c’è, è presente, delicato, coinvolto, intelligente nei movimenti di camera, padrone delle luci, degli effetti (assolutamente naturali) e della scena. Il regista fa suo il detto “ogni corpo ha una storia da raccontare” e su questo motivo sperimenta molteplici vie di narrazione e di cinema, da citazioni agli horror del passato in bianco e nero. Pochi gli eccessi ed i cliché, più usati nel trailer per far presa che integrati nel film, più concentrato sulla ricerca della verità di Jane Doe ed aspetti clinici.
Per come si propone potrebbe far credere che si tratti di splatter, che vi siano tensioni necrofile, aspirazione al torture movie pornografico, che l’aspetto viscerale sia nello scontro crudo, sanguinario e conturbante tra morte e vita, ma The Autopsy non rientra in questo genere di film e per questo – tendenzialmente – deluderà veri fanatici dell’horror che potrebbero essere tra i più accaniti detrattori. Nella sceneggiatura di Ian B. Goldberg (Once Upon a Time) e Richard Naing non ci sono serie intenzioni di raccontare una storia predisposta a terrorizzare, a nauseare, a disturbare il sogno, ma è una scrittura intensa che porta a costruire un legame con i personaggi in scena che – in qualche modo – sono tutti vittime di qualcosa di più grande, ignoto, lontano da quell’obitorio ed è proprio questa l’originalità che vanta il film: parlare di umanità, un tema che quasi mai è trattato nel cinema dell’orrore, o che – per lo più – è marginale se non assente.
Il mestiere in apparenza più disumano del mondo, diventa un modo di comunicazione estremamente umano, nonché un modo per de-costruire (e ricostruire) una storia, una vita, verso cui vi è un’empatia così profonda che finisce per diventare totale; ad esaltare questo aspetto non ci sono solo grandi attori nelle vesti di bei personaggi, ma soprattutto un regista che è alla continua ricerca della migliore via di narrazione, capace di metterla in discussione e riprenderla, giocare con poco e comunicare molto restituendo un importante valore alla fotografia (di Roman Osin) come catalizzatore di emozioni ed umori, oltre che diventare strumento ideale per l’azione.
In conclusione The Autopsy non è un film sconvolgente e non ha nulla di rivoluzionario, ma c’è un modo di approcciare al genere che è indubbiamente originale e che porta a riscoprire (e ricordare) un cinema horror più lontano e per lo più dimenticato. Lo si può amare o detestare, la critica non può che dividersi con valide ragioni da ambe due le parti, in questo lato del web c’è stato un apprezzamento sincero (ma non esaltato) perché è riuscito ad esorcizzare deludenti ricordi di horror in favore di una storia coinvolgente realizzata con magistrale cura.