The Dragon and the Wolf ha chiuso la settima stagione di Game of Thrones e, aspettando il 2019, non resta che tirare le somme di questo discusso capitolo dello show.
Al solito si raccomanda di rimandare la lettura a coloro che vogliono evitare spiacevoli spoiler finali.
L’ultimo episodio ci ha lasciati come Tormund sui bastioni di Forte Orientale: davanti alla Barriera distrutta, in ansiosa attesa e con un fiato corto che dovremo farci bastare per un anno e mezzo. Per quest’anno Game of Thrones si è chiuso con un mostruoso, bellissimo cliffhanger e una puntata che, similmente alla stagione vista nel suo complesso, non risolve nulla ma svolge un ruolo di passaggio verso l’ottavo capitolo. Infatti fin qui abbiamo assistito all’assemblaggio degli schieramenti, all’eliminazione di personaggi ormai di troppo per una trama prossima all’ineluttabile traguardo e alla convergenza di tutte le linee narrative.Insomma ogni cosa è predisposta per l’appuntamento col destino, più che mai dopo gli sviluppi di questo season finale, senza dubbio bello, ma meno sorprendente del predecessore, che lascia l’amaro in bocca. La morte sommaria di Ditocorto, l’uomo più pericoloso dei Sette Regni, idealmente destinato a tenere le redini della partita, offre la sintesi perfetta di quello che gli sceneggiatori hanno fatto in queste sette puntate: semplificare.
Funziona poco anche il confronto tra le Regine, messo in ombra dall’ennesima, ridondante valorizzazione di Jon/Aegon, volta a spianargli ulteriormente la strada per il cuore di Daenerys. Di segno opposto la resurrezione di Tyrion, coinvolto in uno dei momenti migliori dell’intera stagione, finalmente degno del personaggio e arricchito di una nota ambigua che fa ben sperare per il futuro. Il rapporto trai tre Lannister è forse la parte della storia che ha meno risentito della corsa al gran finale, restando coerente, intenso e deliziosamente incerto.Infatti l’arrivo a questo assetto finale è avvenuto ad un ritmo altalenante nei singoli episodi, ma nel suo insieme tanto accelerato da rendere difficile giustificare alcune svolte narrative e psicologiche. A farne maggiormente le spese nel corso della serie sono state il banale sviluppo della storyline di Jon e Daenerys, la relazione tra Verme Grigio e Missandei sacrificata al fan service, la parabola di Arya e la clamorosa messa in disparte di Varys.
Sono venute meno le complessità che legano ciascun personaggio al proprio vissuto, la maestria che ha reso indimenticabili alcuni incontri e le sorti che li hanno consegnati al mito.In particolare è stato criticato l’uso di alcune costanti esemplificative che hanno caratterizzato la scrittura, come i famigerati dei ex machina, Euron e Sam, i grossolani errori di strategia di Tyrion e la durata di trasporti e viaggi. Non bisogna però mancare di considerare le esigenze televisive di un prodotto che è mutato. La serie e l’opera letteraria da cui è tratta si comportano ormai come le teste separate di una creatura bicefala, e data la lentezza di Martin non potrebbe essere altrimenti. Una mancata migliore distribuzione degli eventi nel corso degli anni di messa in onda, in modo da rendere più accettabili alcune evoluzioni, è in parte stata impedita dalla coraggiosa scelta di voler adattare un’opera non finita, con la conseguenza di non poter predeterminare con esattezza gli accadimenti da rappresentare, e probabilmente dai ribaditi tagli al budget. Nonostante le pecche, Game of Thrones resta uno degli show destinati a fare la storia della tv, indiscusso apripista di produzioni colossali per il piccolo schermo, in grado di raggiungere vette di raffinatezza tecnica indiscutibili, che non sono mancate nemmeno in questa stagione. Il cast, la colonna sonora, le locations, la fotografia, la cifra stilistica incancellabile e la caratterizzazione di alcuni personaggi sono rimasti integri. La rappresentazione dell’epica e la tensione sono riuscite tanto in scene di guerra, come la calata di Drogon sull’esercito Lannister e la morte di Viserion, quanto in alcuni semplici dialoghi tra protagonisti, in grado di trasmettere l’irrequietezza tormentata delle passioni umane.
Di ragioni per restare incollati alla poltrona ce ne sono state eccome, anche andando a risparmio (sopratutto di vittime).
Nella sua trasformazione da spettacolo creato per un ristretto target di fruitori a vero fenomeno di costume che ha investito fasce sempre più ampie di pubblico televisivo per diventare prima di tutto un prodotto destinato al grande intrattenimento, e quindi non immune alle pretese del fandom e alle leggi di mercato, la serie ha senza dubbio pagato un tributo di qualità senza però tralasciare picchi di eccellenza difficilmente eguagliabili.
Due battaglie per la vita da combattere, una separazione amara e un’unione annunciata consumatasi alla luce della verità su ciò che ha dato inizio all’intera storia, per la prima volta proferita ad alta voce, queste le basi gettate per l’atto conclusivo. Il ritmo che ha caratterizzato la settima stagione di Game of Thrones probabilmente non rallenterà nell’ottava stagione, in cui gli sceneggiatori si troveranno a gestire un gran numero di importantissimi avvenimenti in ancora meno puntate. Non resta che aspettare e sperare di essere di nuovo stupiti.