E fu subito hype alle stelle per l’uscita dell’ultimissimo film su Oscar Wilde, The Happy Prince. Un’atmosfera vittoriana e decadente, il fascino di una delle figure artistiche più controverse di sempre, una colonna sonora firmata Vivaldi… Saranno bastati tutti questi ingredienti a fare di un film il film su Oscar Wilde? E Rupert Everett si sarà rivelato all’altezza delle aspettative lasciateci del trailer? Vediamolo insieme.
The Happy Price: l’ultimo ritratto di Oscar Wilde è il titolo scelto da Everett per la sua prova d’esordio alla regia. E, d’altronde, poteva forse scegliere altro soggetto colui che, a buon diritto, è considerato il più dandy di tutti gli attori (e, da oggi, anche registi) britannici esistenti? Dichiaratamente omosessuale, profondamente attratto dalla figura di Wilde fin dai tempi de L’importanza di chiamarsi Ernest (2002), Rupert Everett sembra vivere la propria creatura come un alter-ego. E, al di là della resa (più o meno discutibile) del soggetto, è veramente impossibile non percepirne l’amore e l’omaggio sincero che ne stanno dietro. Ora, di film su Oscar Wilde e dintorni ce ne sono stati parecchi, basti pensare al tanto recente quanto chiacchierato Dorian Gray (2009) di Oliver Parker; ma in cosa è veramente diverso The Happy Prince? Date le premesse, non potremmo non rispondere che lo è proprio sulla base del rapporto che il regista, nonché sceneggiatore e interprete principale, ha instaurato col proprio personaggio. Il rapporto viscerale, a tratti morboso, che si instaura fra Everett e la sua personalissima versione di Oscar Wilde ha radici antichissime. Antiche almeno quanto Rupert stesso:
The Happy Prince era la favola che mia madre mi leggeva prima di andare a dormire. Me la ricordo seduta vicina la letto e vestita come Jackie Kennedy. Per lei si trattava di una scelta coraggiosa. Per il resto mia madre era una donna molto convenzionale.
La favola dell‘Happy Prince, dunque, è la cornice che abbraccia tutta la vicenda, è la favola che apre e chiude metaforicamente il cerchio dell’autodistruzione di Oscar Wilde – almeno per quanto riguarda gli ultimi anni della sua vita. Ed è la storia di una bellissima statua di petra e zaffiri che, con l’aiuto di una rondinella devota, si spoglia progressivamente dei suoi averi fino a diventare qualcosa di triste e insignificante per il mondo degli uomini.
Il film prende infatti le mosse dall’accusa di sodomia che condannò Wilde a due anni di lavori forzati nel carcere di Reading – famoso per l’omonima ballata che Wilde scrisse in occasione della sua scarcerazione nel maggio 1897. Con una didascalia a sfondo storico il film si apre e si chiude: in mezzo solo la triste e, a tratti, scabrosa parabola discendente di un uomo, un artista, che ha perso tutto. Tutto tranne l’affetto di un gruppo di amici fidati, fra cui primeggiano il critico letterario Robbie Ross (Edwin Thomas) e lo scrittore Reggie Turner (Colin Firth). Opposta e a loro complementare è la figura di Bosie, alias Lord Alfred Douglas (Colin Morgan), l’amante più appassionato e crudele di Oscar Wilde. E’ a lui che fu indirizzata quella bellissima (e straziante) lettera che è il De Profundis ma che, purtroppo, nel film – riteniamo – non ha certo avuto lo spazio che meritava.
In compenso, largo spazio hanno avuto le riprese di interni squallidi e decadenti, come quella della bettola in cui Wilde canta “The boy I love is up in the gallery” – poi motivetto ricorrente del film – o quella in cui si imbatte in giovani uomini che, sotto pagamento, garantiscono indimenticabili attimi di “amore purpureo“. Le riprese in questi interni sono spesso vorticose, claustrofobiche, dominate da lunghi piano-sequenza che certo non garantiscono una facile fruibilità del film. Così come non ne garantisce una facile fruibilità il continuo avvicendarsi di salti temporali; tra un soggiorno a Parigi e uno a Napoli, lo spettatore finisce un po’ per perdersi nel filo cronologico degli eventi. Tuttavia, una costante c’è: la figura umana troppo umana di Oscar Wilde, sempre in bilico fra la gioia dei ricordi e le incalzanti ombre della morte.
Insomma, un dramma storico che non si risparmia e non ci risparmia nulla. E forse proprio per questo un po’ difficile da digerire. Specialmente per la preferenza accordata a tutte quelle riprese estetizzanti piuttosto che a una maggiore chiarezza di contenuto. Per cui, sì, chapeau per l’idea ambiziosa ma il confronto con il mito di Wilde non regge e, anzi – è proprio il caso di dirlo – pecca forse di eccesiva stucchevolezza. Ma come si sarebbe potuto evitare di incappare nell’errore? Semplice: lavorando di sottrazione. Meno salti temporali, meno personaggi secondari, meno bicchieri di champagne (anche poco prima della morte, really?) e, soprattutto, meno canti di gabbiani per ogni singola ripresa in esterna e più Vivaldi!
In ogni caso, sentiremo ancora molto parlare di The Happy Prince dato che il suo regista pare essersi conquistato l’invito come ospite d’onore alla 40esima edizione degli Incontri Internazionali del Cinema di Sorrento, quest’anno in corso fra 18 – 22 aprile e dedicato al genere drama con focus sul Regno Unito. Ci auguriamo che, al di là dei limiti della realizzazione, il film possa godere di una buona accoglienza e, se non altro, sensibilizzare il pubblico al delicato tema dell’omosessualità – tema così delicato da vedere aggiornata solo al 2017 l’assoluzione ufficiale di Oscar Wilde dall’accusa di omesessualità in Inghilterra.