La quarta stagione della pluripremiata serie Sherlock si è conclusa domenica sera, con un episodio carico di colpi di scena nella miglior tradizione moffattiana (i fan di Doctor Who sicuramente hanno colto il riferimento), lasciando momentaneamente – si spera! – orfani gli spettatori di tutto il mondo. Lo show ha stabilito il record di ascolti televisivi di tutti i tempi nel Regno Unito, con nove milioni di spettatori sintonizzati a seguire le avventure del celebre consulente investigativo Sherlock Holmes (Benedict Cumberbatch), del suo fido assistente, il dottor John Watson (Martin Freeman) e di tutti i personaggi che popolano il loro universo, in primis la materna affittuaria, Mrs. Hudson (Una Stubbs), il goffo ispettore di Scotland Yard, Greg Lestrade (Rupert Graves) e il machiavellico fratello maggiore di Sherlock, Mycroft Holmes (Mark Gatiss, co-autore della serie).
La singolare formula con cui è stato portato al grande pubblico (tre episodi per stagione da 90 minuti ciascuno) avrebbe forse penalizzato uno show meno brillante e sapientemente scritto, che però è stato premiato dal suo pubblico con un’ inossidabile fedeltà, capace di superare i lunghi tempi di iato tra una stagione e l’altra (ben due anni!). L’attesa certo non è stata vana. Che piaccia o che non piaccia, che unisca o che divida, Sherlock sa come far parlare di sé. Alcuni degli ingredienti fondamentali che ne hanno garantito il successo si sono mantenuti costanti nel corso degli anni: una straordinaria aderenza ai romanzi e racconti del Canone, un continuo riferimento che non scade mai nel mero citazionismo o nella pedissequa ripetizione ma che, al contrario, sfida sempre sé stesso nel cercare nuove interpretazioni e sfaccettature di un modello di riferimento, in una stimolante imitatio in aemulando; sul talento incredibile non solo dei protagonisti, ma anche degli attori comprimari e dei villains sono stati già versati fiumi di inchiostro, sulla recitazione ora trattenuta, ora sfumata, ora istrionica e caleidoscopica di Cumberbatch e sul suo impareggiabile strumento vocale, sulla bravura di Freeman nel rendere eccezionale e poetico ogni aspetto di un everyman; della follia creativa e visionaria di Andrew Scott, aka Jim Moriarty, che ci grazia con un suo cameo nell’ultimo episodio, e, in questa stagione, di un altro grandissimo attore che il Regno Unito ha donato al mondo, Toby Jones (nei panni di Culverton Smith). La caratterizzazione dei personaggi si è mantenuta coerente nel corso delle stagioni, seguendo, gradualmente, un percorso di umanizzazione del personaggio di Holmes, che nei suoi esordi di A Study in Pink (“Scarlett” nel romanzo da cui è tratto) appare apertamente antisociale e l’evoluzione dei suoi rapporti di collaborazione e affettività con Watson e gli altri personaggi che lo circondano. L’esplorazione della psiche e della sfera emotiva di Holmes è stato l’obiettivo più o meno sottilmente dichiarato dell’intero lavoro di Moffat e Gatiss. Infine, alcuni accorgimenti registici e visivi come la resa “interattiva” del palazzo mentale – un percorso strategico del pensiero che Holmes utilizza per rendere il più possibile funzionali i dati mnemonici raccolti dalla sua intuizione iperattiva – e i “pop up” dei dati da lui acquisiti con l’osservazione sono stati in grado di rendere partecipe il pubblico del processo deduttivo.
Ogni stagione finora in compenso ha avuto, per così dire, il suo tratto distintivo: se nelle prime due si è dato uno spazio prevalente all’azione e al crime più puro, nelle ultime due gli autori hanno lasciato che fosse la sottotrama più intimistica delle relazioni tra i personaggi a prevalere.
Quanto di questo abbia valorizzato o penalizzato la serie, è un caso che va valutato episodio per episodio. Forse proprio il bilanciamento di questi due elementi è mancato in questa stagione, rispetto alle precedenti: nella prima puntata, The Six Tatchers, l’elemento crime è praticamente solo accennato, per lasciare spazio alle vicende personali dei coniugi Watson e alla morte di Mary (Amanda Abbington), elemento necessario nella narrazione ma che, a confronto della tensione dei due episodi successivi, appare quasi illustrata con negligenza. In The Lying Detective, per fortuna, tornano a manifestarsi gli elementi tipici di questo show: la fedeltà al modello, il legame Holmes-Watson, la capacità di Moffat di modellare dialoghi e scrittura sui suoi attori per cucir loro addosso una performance con un taglio a dir poco sartoriale e il mistero che va ad infittirsi proprio quando sembrava essere stato svelato: un nuovo agente del male che minaccia la vita di Sherlock, questa volta, nei panni di un’inattesa sorella segreta, Euros (Sian Brooke), con un’intelligenza pari a quella dei due fratelli ma affetta da una insanabile schizofrenia ed una chiara vocazione al male.
The Final Problem è, a tutti gli effetti, da cardiopalma: i primi sessanta minuti dell’episodio non permettono allo spettatore di tirare il fiato e il finale, dolceamaro, sancisce come una benedizione la nascita della leggenda dei “Baker Street Boys”.
Magari con un’equa redistribuzione di questa tensione ed agilità narrativa anche ai precedenti episodi, la serie ne avrebbe beneficiato.
Uno studio in Sherlock: perché è il miglior adattamento possibile. Da icona ad icona.
Benedict Cumberbatch è il settantaquattresimo attore, in ordine cronologico, ad aver prestato il volto al personaggio letterario più rappresentato su grande e piccolo schermo nel corso del XX e XXI secolo (secondo solo a Dracula). Portare Sherlock Holmes in televisione o al cinema non è certo impresa nuova: la sfida di Steven Moffat e Gatiss è stata quella di adattare i racconti dell’età vittoriana nella Londra dei giorni nostri; in un’epoca in cui la tracciabilità del DNA, le telecamere a circuito chiuso, il GPS, le impronte digitali e i tabulati telefonici consentono di identificare e localizzare chiunque di noi in qualsiasi momento, la scienza investigativa di Holmes può essere necessaria e addirittura credibile? Premesso che è comunque necessaria una buona dose di sospensione dell’incredulità da parte dello spettatore (Holmes è stato definito da alcuni critici “il primo supereroe della letteratura” per via delle sue caratteristiche del tutto eccezionali), l’esperimento sembra essere pienamente riuscito. I parallelismi sono risultati intelligenti, arguti e sofisticati, come alcuni particolari che hanno strizzato l’occhio agli appassionati del Canone (il contatore del blog di Watson fermo al numero 1895, anno in cui Sherlock Holmes sarebbe stato all’apice della forma fisica e dell’acutezza mentale). Ma la chiave di volta dello show è stata individuare i particolari iconici del mito di Baker Street e sostituirli con altri, attuali e altrettanto iconici, anche e soprattutto visivamente. Il cappotto blu Belstaff indossato da Cumberbatch è ormai diventato immediatamente riconoscibile tanto quanto il celebre deerstalker; il diario di Watson è divenuto un blog. L’arredamento di Baker Street ha una sua geografia e un suo design assai precisi e caratteristici (merito anche del brillante scenografo Arwel Jones). La sfida di Moffat e Gatiss è stata vinta perché non contiene un semplice tributo o richiamo al Canone di Doyle (come è avvenuto per House MD o per Elementary) ma è una vera e propria opera di riscrittura e adattamento, visuale e contenutistico.
“Here, though the world explode, these two survive”: la leggenda dei Baker Street Boys.
Quattro e non più quattro? Incerto è il destino della serie, se vedremo mai una quinta stagione. La fama di Cumberbatch e Freeman ha reso affollatissime le loro agende e potrebbe trascorrere molto tempo prima di poterli avere entrambi nuovamente disponibili. Oltre a ciò, Moffat e Gatiss soffrono evidentemente del complesso di Muhammad Alì: meglio concludere qualcosa mentre è ancora all’apice del suo splendore piuttosto che stiracchiarla con l’accanimento terapeutico in un lento e inesorabile declino. Inoltre, come è stato chiarito, l’operazione attuata dagli autori è un riadattamento e inizia ad intravvedersi lo sforzo di rendere brillante un materiale che già in origine è poco sostanzioso: i Mofftiss, come vengono chiamati dai fan, avrebbero già dato fondo ai romanzi e ai racconti più intriganti da convertire in sceneggiatura. Per questi motivi, dichiarati esplicitamente o meno, la quarta stagione è strutturata per rappresentare potenzialmente una conclusione, o meglio, secondo le parole di Moffat, “l’inizio del mito di Sherlock Holmes e Watson così come lo conosciamo”. È proprio Mary Watson, la moglie di John deceduta tragicamente, a sancire la nascita dell’epopea di Baker Street: “non importa chi siete, ciò che conta è la leggenda”.
In altre parole, ogni mito, per sua stessa natura, ha tanti volti e tante letture. Sherlock Holmes e Watson, nel corso dei decenni, hanno cambiato aspetto, voce, natura, perfino sesso, ma ciò che conta è che il cerchio si chiuda laddove si è aperto: quel cronotopo, quell’universo alternativo che è Baker Street, dove ci sarà sempre una speranza e una mano tesa per chi cerca ordine e giustizia nel caos dell’esistenza. Quel rifugio nella nostra immaginazione dove le belle storie ci cullano e ci sostengono, dove gli eroi esistono, anche quelli che non stanno dalla parte degli angeli, dove anche se il mondo esplodesse, questi due sopravvivrebbero.
E sarà sempre il 1895.