La perfezione del numero tre ricorre ossessiva e dogmatica nell’opera prima di Elisabetta Minen, Three – The movie.
Affamano e nutrono le religioni dei tre protagonisti, così diversi e connessi nel credo declinato ora nella cristiana Trinità, ora nelle sei punte della stella di David, sino al più che perfetto volto di Dio, nel nove sufista.
Le vite dei tre paiono scorrere ineluttabili e tese verso il loro destino, sfiorando rapporti sfuggiti ancor prima d’esser consumati, tracciando malinconiche impressioni di simiglianza e solitudine.
Su ciascuno dei fati aleggia lo spettro dell’antagonista, di tre personaggi che imprimono e incarnano salde realtà metafisiche.
E’ Monsignor Angelo (Saverio Indrio) che veglia su Irene (Vivianne Treschow), che la protegge, che la consiglia. E’ il cieco (Werner Di Donato) che attende, che vede aldilà di ciò che è sensibile.
E’ una donna sensuale (Chiara Pavoni) il mistero del Male, che adesca e corrompe.
Ed a nove si eleva il numero dei personaggi con il trittico composto da Edo il novizio, da Omar il losco amico e dall’Angelo del Nord, figura depredata dalla tradizione coranica.
Ma è con la bambina che giunge il dieci, che in fondo è l’uno: puro e sorridente.
Udine si presta come sfondo, divenendo calzante pretesto per una storia che traccia e sfuma l’identitario confine dei molti bagagli affibbiati all’essere umano, curioso e inconsapevole, recluso viaggiatore.
Nella claustrofobica stretta della città di frontiera scorrono i protagonisti che tentano con intermittente vigore di librarsi oltre i limiti imposti dal saggio fato spietato.
L’architettura registica regge simmetrica e aulica il capo di luoghi che riescono ad esser sobri e all’occorrenza maestosi, che abbandona il palpabile per sfociare nel surreale.
E’ proprio quest’ultimo che la fa da padrone svettando purpureo quando più onirico, esaltato dalle impeccabili interpretazioni attoriali degli antagonisti e sottolineato magistralmente dalle musiche di Roberto Salvalaio.
D’altra parte la storia deve necessariamente ceder riluttante lo spazio a protagonisti che sfilano rigidi e impacciati lungo percorsi indelebilmente sdruciti dalle loro interpretazioni.
E’ il caso di Irene, che riesce incredibilmente ad annullare qualsivoglia verosimiglianza e ad impedire ogni sforzo empatico del patto spettatoriale.
Accade con Pavel la cui caratterizzazione intuita nei dialoghi non riesce a accordarsi nemmeno per sbaglio (o per statistica) all’interpretazione.
Si riconferma purtroppo con Mehdi che nonostante ogni sforzo non riesce ad emergere dalla simbolica caricatura.
Giunge in soccorso alla sceneggiatura l’abile riscrittura del montaggio che si adopera sartorialmente per sfoggiare un abito di cui s’intravede il bozzetto, tra l’incoerenza di forma e di qualità delle stoffe.