Se aveste a disposizione 220 milioni di Dollari, cosa fareste? Li dareste in beneficenza? Li investireste nel futuro dei vostri figli? Vivreste di rendita per il resto dei vostri giorni? Comprereste Cristiano Ronaldo per la vostra squadra del cuore? Michael Bay, con quei soldi, ha deciso di produrre e dirigere Transformers – L’ultimo cavaliere, il quinto capitolo della saga con protagonisti i robottoni made in Hasbro. Ed è la cosa peggiore che potesse scegliere di fare.
Il film parte subito in quarta, senza preoccuparsi di fare nemmeno un piccolo recap per chi non ha mai visto – o semplicemente non ricorda – gli altri film della saga. Il consiglio è quindi di approcciarsi a questo quinto capitolo con un breve ripasso dei precedenti, altrimenti capirete davvero poco o nulla. All’inizio del film ritroviamo Cade Yeager (Mark Wahlberg), ricercato dalla TRF (Transformers Reaction Force), un’organizzazione militare il cui scopo è sterminare tutti i Transformers, indipendentemente dalla fazione a cui appartengono. Tuttavia una nuova minaccia incombe sulla Terra e i militari si uniscono a Cade e gli Autobot per salvare il mondo.
All’apparenza la trama può sembrare semplice, ma è resa confusionaria all’inverosimile da una serie di elementi che riempiono oltremodo il film. Per cominciare c’è un numero spropositato di protagonisti (e rispettive storyline). Abbiamo infatti Cade Yeager con gli Autobot inseguito dai militari e dai Decepticon, Optimus Prime sul suo pianeta natale e una professoressa di Oxford (Laura Haddock, mamma cinematografica di Peter Quill in Guardiani della Galassia) alle prese con Sir Edmound Burton, interpretato da Anthony Hopkins, a cui è stato chiesto sostanzialmente di riprendere il suo ruolo in Westworld.
Oltre a loro vengono introdotti anche tantissimi altri personaggi, sia umani che robot, inutili ai fini della trama. Il caso emblematico è rappresentato dai nuovi Decepticon presentati uno ad uno con tanto di nome in primo piano, per poi soccombere sotto i colpi degli Autobot dopo neanche metà film.
Poi c’è la componente registica, e si va oltre l’apprezzare o meno lo stile e l’estetica di Michael Bay, perché ci sono errori grossolani di impostazione. Il film non si prende mai una pausa e le inquadrature, che non durano mai più di cinque secondi (“Uno, due, tre, stacca! Uno, due, stacca! Uno, due, tre, quattro, stacca! Uno, stacca!”), oltre a non avere profondità di campo, mettono a dura prova i bulbi oculari di chi guarda. Il ritmo è tenuto costantemente alto dal regista e ciò risulta controproducente per il film stesso. La regola non scritta che porta all’esplosione finale in questo genere è la suddivisione in atti, in cui si alterna uno a ritmo alto ad uno più basso per poi tornare alto e così via. Abbassare i toni serve a preparare il cosiddetto gran finale, consentendo di creare il climax giusto per le scene conclusive in cui si vuole raggiungere l’apice del film. In Transformers – L’ultimo cavaliere tutto questo non accade e lo scontro finale è assolutamente privo di pathos. Lo stesso discorso lo si potrebbe fare per tantissimi altri elementi, come ad esempio la fotografia, che rimane sempre la stessa senza mai variare in tonalità, o per il montaggio da crisi epilettica.
Oltre a durare un’infinità (149′ che non passano MAI), Transformers – L’ultimo cavaliere contiene tutto il peggio dei film di fantascienza degli ultimi 20 anni. C’è la Storia (con la S maiuscola) stravolta dalla storia (con la s minuscola) con scene assolutamente no sense, c’è il fisico matematico – perché giustamente in caso di cataclisma l’umanità si rivolge ad un singolo – che tenta di risolvere in solitaria ogni problema che si presenta, parafrasando ciò che sta accadendo a mo’ di (fastidiosissimo) narratore, ma soprattutto c’è il totale rifiuto alla sospensione dell’incredulità. In questo genere di film sono i dettagli a rendere plausibile una storia a cui non crederesti mai, almeno per quelle due ore in cui stacchi il cervello e ti godi il film: è la base della fantascienza. Ebbene, i particolari non sono curati per nulla. Ad esempio i protagonisti si cambiano magicamente i vestiti nei posti più assurdi senza avere il tempo materiale per farlo, adattandosi all’ambiente in cui si sta per svolgere l’azione. Mark Wahlberg passa da essere vestito da meccanico in un parcheggio di macchine rottamate, a maglione e cuffia in un sottomarino, alla divisa militare per il gran finale in cui non manca ovviamente la zoomata sulla toppa raffigurante la bandiera a stelle e strisce. L’apoteosi del cliché, si ride per non piangere. Un velo pietoso sugli attori: basti pensare che protagonisti sono, oltre a Wahlberg, Josh Duhamel e Laura Haddock, mentre Stanley Tucci e John Turturro (gente che ha lavorato con George Romero, Peter Jackson, Woody Allen e i Coen per citarne alcuni) sono stati utilizzati nei ruoli più inutili ed insignificanti delle loro carriere.
Per finire la sceneggiatura, che è meno curata di quanto si possa immaginare. Ma i fan del cinema di Michael Bay sostengono che sia un maestro del cinema d’azione, che la trama nei suoi film passi in secondo piano. Ecco, la medesima critica fu fatta ad un altro film che ha come protagonisti dei robottoni. Ma c’è modo e modo di fare film d’azione senza avere una trama forte e solida alle spalle. Un indizio?