Chi ama davvero il cinema non dovrebbe lasciarsi scappare Tre Volti (in arrivo nelle sale italiane il 29 Novembre), film scritto e diretto dal regista iraniano Jafar Panahi, poiché testimonianza pura di come una buona idea, seppur realizzata con pochi mezzi, basti per dare vita ad un’opera sublime e dal forte impatto emotivo e sociale.
Il film, premiato nel 2018 al festival di Cannes per la miglior sceneggiatura, nasce da una tendenza che negli ultimi anni è letteralmente esplosa nei paesi iraniani, grazie alla diffusione dei social network, ovvero il desiderio di evadere da un società ancora oggi estremamente opprimente, soprattutto nei confronti della donna e,come in questo caso, del mondo cinematografico.
L’opera si apre con un inquietante video amatoriale destinato a Behnaz Jafari (celebre attrice iraniana contemporanea), girato da una ragazzina che, disperata, implora l’attrice di recarsi nel suo villaggio, un paesino sperduto tra le montagne dell’Iran, per convincere i parenti a lasciarla studiare al conservatorio di Teheran, permettendole così di intraprendere un giorno la carriera di attrice.
L’aiuto di Behnaz rappresenta infatti per la giovane l’ultima speranza di riuscire a scappare da un matrimonio forzato e da una vita soffocante in un mondo dove la donna è relegata esclusivamente al ruolo di moglie e madre. Nel caso in cui l’appello della ragazza dovesse risultare vano, l’unica via di fuga rimastale sarebbe il suicidio. Behnaz, shockata, decide di rivolgersi all’amico cineasta Jafar Panahi, chiedendogli di accompagnarla al villaggio della ragazza per aiutarla a scoprire se il video sia reale o frutto di uno scherzo di pessimo gusto.
Inizia così il viaggio dei protagonisti, che li porterà ad inoltrarsi tra le remote montagne del nord-ovest, dove uno stile di vita rurale e antiche tradizioni continuano ancora oggi a delineare le vite degli abitanti.
Chi è Jafar Panahi
Fin dal suo esordio come regista nel 1995, Jafar Panahi ottiene grandi riconoscimenti nel panorama del cinema mondiale, partecipando più volte al Festival del Cinema di Cannes e alla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia. Il suo film Il Cerchio (Leone d’oro nel 2000)è il primo di tanti suoi lavori a mettere in discussione in modo esplicito la condizione della donna in Iran. Tuttavia, a partire proprio da Il Cerchio, quasi tutte le sue opere subirono l’interdizione delle autorità iraniane, che in questo modo ne impedirono la diffusione nel suo paese, pur continuando a ricevere premi e onorificenze nel resto del mondo.
I casi di oppressione nei riguardi del regista continuarono a crescere fino al suo arresto nel 2010, dove venne costretto a scontare 86 giorni di reclusione, durante i quali la sua poltrona nella giuria al Festival di Cannes restò simbolicamente vuota.
Rilasciato dietro cauzione, Jafar viene condannato per una durata di tempo illimitata a non dirigere più film, a non scrivere sceneggiature o rilasciare interviste. Inoltre non potrà più lasciare il suo paese, pena una una sanzione fino ad 80 anni di reclusione. Da allora, nonostante tutto, Panahi continua a realizzare film, dove lui stesso e la sua condizione di autore avversato diventano materia centrale del suo cinema, vero e proprio strumento di critica ma soprattutto manifestazione della voglia di cambiamento di un uomo e del suo paese.
Tre Volti: un messaggio rivoluzionario
Tre Volti si presenta dunque come una nuova variazione sul confinamento dell’autore. Inizialmente costretto a girare i suoi film esclusivamente in interni, Panahi riesce nel corso degli ultimi anni a girare in esterno, utilizzando l’automobile come stratagemma per aggirare la censura.
Il cinema di Panahi riprende dunque a respirare, avanzando irriducibile fra le strette e tortuose vie di un paesaggio rurale che, come i suoi abitanti, può risultare ostile ma al tempo stesso accogliente e pittoresco. Jafar non è però che un un accompagnatore, spesso marginale, e osservatore di un mondo dove ad essere al centro del palcoscenico sono tre volti di donna: tre generazioni legate dall’amore per la propria arte e dal desiderio di rivalsa sociale.
Marziyeh Rezaei è una ragazzina disposta a tutto pur di evadere dalla sua gabbia di enormi vallate e ripide montagne, dove i desideri di emancipazione di una donna vengono stroncati da un mondo che la rifiuta in quanto tale, ed anzi vorrebbe condurla a perseguire le tradizioni millenarie di serva ignorante.
Come dicono spesso gli abitanti locali: “Non c’è onore nel diventare un’intrattenitrice. Una donna non dovrebbe studiare. Non dovrebbe nemmeno tenere in mano una zappa, poichè è uno strumento da uomini”.
Sembra non esserci spazio per il cambiamento in questo mondo, dove persino inventare leggi sottomesse alla strada risulta più conveniente e logico che allargare la strada e sottometterla ai bisogni dell’uomo.
Behnaz Jafari, che qui interpreta sé stessa, è una donna forte e indipendente che, divenuta simbolo di speranza per quelle generazioni future ancora oppresse, si confronterà con una società conservatrice ed intransigente, ma sarà allo stesso tempo il fulcro del grande paradosso di questo film, primo sintomo di cambiamento del villaggio. Se da una parte le persone rifiutano la condizione di una donna come ”intrattenitrice”, dall’altra Behnaz verrà sempre accolta dagli abitanti e dalla famiglia stessa della giovane con estrema cortesia, ed omaggiata in ogni modo possibile.
Infine ci appare un volto mai visibile, che si presenta nel film come un’ombra cinese o una figura di schiena, di una donna confinata ai margini del villaggio e rigettata dalla società, poichè attrice che prima della rivoluzione “danzava e faceva film”.
Tuttavia la sua condizione di esclusa non sembra turbarla, la donna è in pace con sé stessa, sebbene spesso rigetti la figura maschile, in particolar modo dei registi, che l’hanno relegata negli anni a ruolo di attricetta a causa del suo aspetto, senza permetterle di esprimere la sua arte e la sua profonda cultura.
Nonostante il film tocchi un tema che spesso, nella vita vera, ottiene risvolti drammatici, non si percepisce un senso di completa oppressione, spicca anzi in modo interessante il dualismo tra la spensieratezza di una vita rurale e accogliente e la natura intrinseca di certe tradizioni che si fatica a riconoscere come limitanti. Ogni incontro è pieno di fascino e ironia, risultando spesso comico nelle sue sfaccettature.
Vi è inoltre un messaggio di speranza: il cambiamento è possibile, anche nei luoghi più impensati. A volte serve solo essere testardi e percorrere la propria strada ad ogni costo, senza paura delle conseguenze. Così come le donne di questo film continueranno a perseguire il loro desiderio di indipendenza, così Jafar Panahi continuerà ad esprimere al meglio la propria arte per trasmetterla a noi e alle generazioni che ci succederanno.