L’urlo straziante di Laura Palmer chiude questa terza controversa stagione di Twin Peaks diretta da David Lynch e trasmessa da Showtime. La doppietta finale del revival, The Return Part 17 e Part 18, si biforca in un doppio finale, l’uno lontano dall’altro.
Finalmente tutti i personaggi si ritrovano a Twin Peaks alla familiare stazione di polizia che ha fatto da sfondo alle tante vicende del mondo twinpeaksiano. Qui va in scena l’ultima battaglia tra il bene e il male e, a differenza del finale della seconda stagione, stavolta è il bene ad avere la meglio. Evil Cooper esce di scena e BOB, uno tra i personaggi più inquietanti, finalmente viene disintegrato, ma non da una mossa strategica del nostro aitante Cooper, bensì dal pugno verde supersonico del giovane Freddie, il vero predestinato a questo gesto eroico.
Non è stato Cooper quindi il salvatore in questa occasione, ma è stata la sua mano a portare la giovane Laura Palmer fuori dalle tenebre che l’avevano inghiottita.
Un gioco temporale, che mischia presente e passato, ci riporta alle origini, al 23 febbraio del 1989, quando tutto ebbe inizio. Si torna alla fatidica notte in cui Laura perse la vita. Ma l’intervento di Cooper cambia la storia e il giorno seguente Peter Martell, andando a pesca, non trova nessun corpo sulla riva. Il giorno seguente non c’è nessuna figlia o amica da piangere, il giorno seguente Laura è ancora viva.
Di colpo ci ritroviamo nel presente dove niente è più come prima né Dale Cooper, né Laura Palmer, e neanche la cittadina di Twin Peaks. La storia che conoscevamo, quella a cui ci eravamo appassionati, sembra essersi dissolta nel nulla lasciandoci basiti con un finale inaspettato.
Le interpretazioni di questa conclusione possono essere infinite, come può esserlo il sottotitolo di ogni puntata, The Return, che a questo punto potrebbe riferirsi non al ritorno di Dale, bensì a quello di Laura.
Per 18 puntate abbiamo visto esprimersi la libertà espressiva di Lynch, senza paletti, senza compromessi, e senza restrizioni. Un puro esercizio di stile, una sperimentazione continua sotto i nostri occhi a tratti esterrefatti e a tratti assopiti. E’ innegabile il lavoro fatto, una serie così non solo esce fuori dai canoni della televisione ma forse anche dal cinema stesso. L’arte nella sua forma più pura e astratta, un’opera dal significato non immediato sicuramente, ma celato dietro i lunghi silenzi, gli sguardi vuoti, i loop, le distorsioni, la metamorfosi, l’irreale e il trascendentale. Tutto questo rappresenta una rivoluzione del sistema televisivo che va oltre i confini, incurante dei dettami dell’audience e distaccandosi dai programmi preconfezionati a cui siamo abituati.
Per quanto rivoluzionario sia stato questo esperimento e per quanto a livello visivo abbiamo assistito a scene sublimi, Twin Peaks rimane un progetto difficile da digerire e difficilmente fruibile. Se vogliamo considerarlo come opera a sé stante fuori da ogni realtà, sì, è stato fantastico. Se invece vogliamo contestualizzarlo come prodotto televisivo, come serie tv, i diciotto episodi sono risultati troppi, soprattutto se si considera che a livello della trama i 2/3 di questi sono stati inutili. Tremila sono le storie accennate e lasciate in sospeso senza una risoluzione, altrettanto i personaggi messi in disparte (per citarne una, Audrey?)
Una cosa è certa, ritornano le strade perdute lunghe e infinite che nascondo dietro l’orizzonte dimensioni surreali. Twin Peaks non ha voluto dare risposte ma ha voluto fare domande, quante più poteva e per la seconda volta siamo rimasti a brancolare nel buio, più confusi di prima, come 25 anni fa.