Un Natale al Sud, ultimo del filone dei Cinepanettoni, portatori di quella locura, nominata in Boris, che ci assolve da ogni male. Il cinepanettone vede le sue radici in seguito al successo di Sapore di mare (1982) di Carlo ed Enrico Vanzina, quando il produttore Aurelio De Laurentiis commissionò ai due registi e fratelli un film simile ma di ambientazione invernale, da far uscire sotto Natale. L’idea era quella di rendere uno spaccato sociale dell’Italia in un momento che accomunava tutti gli italiani, come quello della celebrazione natalizia. Il film era una semplice, ma non banale, commedia degli equivoci che, tra le risate e battute che sono entrate nella storia, del popolo se non del cinema, lasciava spazio anche a riflessioni più profonde. Con l’andare degli anni si è persa quella semplicità e i film hanno cominciato a prevedere grandi budget, a fronte di spostamenti in località esotiche e cartellini da onorare di guest star d’eccezione (solo per citarne alcune: Leslie Nielsen, Luke Perry, Danny De Vito, Daryl Hannah, Cindy Crawford, Carmen Electra, Bob Sinclair), lo scopo era chiaro: una volta persa la sostanza bisognava incartare il prodotto dando l’idea che fosse un blockbuster all’italiana.
Un Natale al Sud, invece, è il nuovo nato della sempre più lunga stirpe dei cinepanettoni low budget. Questo, invece di riportare ad un incremento della qualità, atto a sopperire alla mancanza di spettacolo, ha fatto solo sì che tutti i difetti del film fossero alla luce del sole. Non ci è dato sapere se la responsabilità sia del regista, Federico Marsicano, alla sua prima prestazione per un lungometraggio dopo anni da aiuto regia, o di un genere che, da quando è stato abbandonato dai suoi padri fondatori, ha perso completamente la bussola, sta di fatto che Un Natale al Sud è indubbiamente il peggior cinepanettone di sempre.
La storia narra di Peppino (Massimo Boldi) e Ambrogio (Biagio Izzo), un carabiniere milanese e un fioraio napoletano, che s’incontrano in chiesa durante la notte di Natale con le rispettive famiglie, nella località turistica (imprecisata) dove hanno deciso di festeggiare le vacanze natalizie. Entrambi hanno un figlio maschio ed entrambi i figli maschi hanno relazioni online con delle ragazze, conosciute sull’app d’incontri Cupido 2.0 (che vorrebbe fare il verso a Tinder e simili), le quali si qualificano come le loro “fidanzate virtuali”, senza alcuna ironia da parte delle stesse. I giovani infatti non si sono mai incontrati dal vivo ed è proprio questo a turbare i genitori.
Tornati ognuno nella sua città, dopo mesi (anche qui impossibile definire con precisione quando) per iniziativa delle mogli, Bianca (Debora Villa), moglie di Peppino e Celeste (Barbara Tabita) le due coppie di genitori decidono, col pretesto di regalare una vacanza ai figli, di mandarli al raduno annuale degli utenti di Cupido 2.0, che si svolge nel lussuoso resort di una località marittima del sud, in modo da farli finalmente incontrare con le fidanzate. Tra i tanti partecipanti al raduno vediamo Eva (Anna Tatangelo) e Leo (Paolo Conticini), chiara imitazione di Gianluca Vacchi (un po’ meno triste forse) atta a fare l’occhiolino al pubblico più giovane, entrambi in loco come testimonial della app, in qualità di fashion blogger e influencer di successo (si presentano proprio così). Sul posto anche Checco (Enzo Salvi) autista di uno scienziato/psichiatra entrato per sbaglio in possesso della sua ultima invenzione: una pillola per la felicità in grado di eliminare, agli occhi di l’assume, le brutture del mondo rimpiazzandole con gli oggetti del proprio desiderio. Una sorta di droga allucinogena che richiama al potere dell’arco mitologico di Cupido. Tant’è che, dopo averla presa, Eva s’innamora a prima vista di Peppino e invece di vederlo come un anziano decrepito, lo vede come un giovane bello e interessante.
Il film vorrebbe essere una commedia degli equivoci, caratterizzata da una scialba morale incentrata sui rapporti online e sulla differenza i tra sani valori dell’amore semplice, di una volta, e le stranezze della modernità. Fin qui andrebbe ancora tutto bene; certo, il tema è trito e ritrito e lo svolgimento anche, ma la retorica, se fatta bene, può ancora essere intrattenimento. Il problema è proprio che il film fallisce miseramente nelle sue due caratteristiche principali, commedia degli equivoci e retorica.
La commedia degli equivoci è imperniata interamente sulla concatenazione degli eventi, il meccanismo che fa girare la macchina dell’intrattenimento. In Un Natale al Sud, invece, troppo spesso vediamo scene prive di alcun senso, durante le quali è incomprensibile capire se vediamo quello che ci viene mostrato perché il tale personaggio possa dire una certa battuta, ritenuta divertente (spoiler: non lo è), o se facciano parte del meccanismo narrativo. Non viene mai detto perché alcuni personaggi si trovino nel resort insieme agli altri, né perché, quei pochi che già si conoscono tra loro, non si stupiscano di ritrovarsi tutti lì. Personaggi che litigano e alla fine si vogliono bene senza aver mai fatto pace, senza che sia mai stato mostrato un momento di riavvicinamento tra di essi. Gli effetti stessi della fantomatica pillola della felicità risultano contradditori, trascinando, insieme a molti altri elementi, lo spettatore in una spirale di confusione nauseante che non finisce fino ai titoli di coda. Il problema non è il cinepanettone, ma il cinepanettone fatto male, il cinepanettone che tradisce se stesso.
Anche la retorica sulle relazioni online è raffazzonata, pensata probabilmente per un pubblico anziano, che non ha idea di cosa si trova davanti ed è abituata a leggere queste cose sulle colonne dei settimanali scandalistici. Ecco quindi lanciati alla rinfusa i termini principali dei social network come youtuber, fashion blogger, influencer, like, visualizzazioni, matchare, atti a scandalizzare i poveri nonnini in sala, portandoli a pensare che in questa era di internet tutto sia lecito e che la corruzione dei costumi dei loro nipoti sia irreversibile. Il film si maschera da riflessione su determinate tematiche che non vengono poi mai toccate, sostituendo la riflessione con irritanti siparietti che hanno il solo scopo di andare nella direzione più comoda alla trama, poco importa se sono totalmente incoerenti tra loro.
Neanche le bellezze sono più le stesse. Il filone cinematografico che è sempre stato criticato (o osannato) per l’utilizzo spasmodico del commercio del corpo femminile, sostituisce i belli e le belle, giovani e sani, con corpi deformati da steroidi e chirurgia plastica. I pochissimi campi lunghi presenti nel film sembrano un quadro di Bosch, un bestiario medievale.
Ma a mettere a disagio lo spettatore più di ogni altra cosa è Massimo Boldi, settantunenne invecchiato malissimo, che sembra essere mosso da invisbili fili come una marionetta. In tutto il film c’è una sola scena con Boldi che cammina, il resto del tempo è seduto, sdraiato o in piedi poggiato a qualcosa, apparentemente inebetito, come sotto l’effetto di un oppiaceo.
Unica nota quasi positiva del film è Enzo Salvi, caratterista veterano e fedele alla linea che, pur non essendo al massimo della forma, è l’unico a strappare una risata durante questi terribili novanta minuti, ma deve tentare fin troppe battute prima di trovare quella giusta.
Potrà risultare difficile crederlo ma il cinepanettone, ai suoi esordi, era il cinema di critica sociale per eccellenza. Popolare sì, ma anche politico. Nessun film in Italia ha descritto la disparità sociale con l’amarezza agrodolce del primo Vacanze di Natale (1983), quindi quest’anno, se proprio volete vedere un cinepanettone, date una spolverata al videoregistratore e rivedetevi il primo, glorioso, Vacanze di Natale.