La Polonia ha da sempre un rapporto particolare con il cinema. Non morboso come quello degli USA, elitario come quello della Francia o splendido ma complesso come quello dell’Italia. Alcuni registi polacchi, nel corso della storia del cinema, sono stati in grado di lasciarvi un segno perenne. Merito forse dei paesaggi sconfinati, spogli e bellissimi che hanno conquistato, tra gli altri, David Lynch? O forse di quella calma apparente dietro la quale si nascondono passioni e contraddizioni. Krzysztof Kieślowski, adorato da Kubrick, Andrej Wajda, Krzysztof Zanussi e Paweł Pawlikowski (vincitore di un Oscar nel 2015 per Ida e candidato anche quest’anno per lo splendido Cold War) sono solo alcuni degli autori più conosciuti. Małgorzata Szumowska, classe 1973, è una delle ultime eredi di questa brillante tradizione cinematografica. Un’altra vita – Mug, vincitore del gran premio della giuria (Orso d’Argento) al festival di Berlino, è la sua ultima fatica.
C’era una volta in Polonia
Con uno sguardo ironico ma benevolo, il film racconta la bellezza e l’orrore della provincia polacca. Per farlo segue la storia di Jacek (Mateusz Kościukiewicz), un giovane operaio di buon cuore appassionato di metal che sogna di lasciare il paese. Lavora nel cantiere di quella che, una volta finita, sarà la statua di Cristo più alta al mondo. Dedica la sua placida vita alla famiglia, al lavoro, al suo cane e alla sua ragazza, Dagmara (Małgorzata Gorol). Un terribile e improvviso incidente lo sfigurerà completamente: sarà sottoposto al primo trapianto facciale d’Europa. Dopo l’operazione le cose per Jacek cambieranno completamente: nonostante la vicinanza della sorella (Agnieszka Podsiadlik), la sua vita diverrà davvero difficile. Fra intrusioni dei media, rivelazioni e tradimenti, il mondo di Jacek crollerà mostrando il suo vero volto.
Humor inaspettato
Nonostante le premesse drammatiche, Mug è un film che si affida all’humor piuttosto che alla retorica. Racconta con tenerezza limiti e contraddizioni di un mondo assuefatto a vodka e religione, dove sembra che “manchi tutto ma non serva niente” (per citare il nostrano Zerocalcare). Nonostante non abbia alcuna colpa, Jacek diventerà un emarginato, ogni suo rapporto cambierà profondamente. La provincia, già stretta prima dell’incidente, diventerà soffocante per lui. Senza mai giudicare i fallibili (e falliti) co-protagonisti, la regista mostra lo sconvolgimento di questa piccola comunità rurale, travolta da un tragico miracolo.
Minuscoli spazi vitali
La regia si occupa bene di ritrarre un mondo limitato culturalmente e spiritualmente, a discapito degli enormi spazi aperti e della natura circostante. Jacek, in compagnia di Dagmara o del suo cane, è il solo a godere appieno di quegli spazi, a cui le altre persone non sembrano fare caso. In molte sequenze, le figure al centro dell’inquadratura sono a fuoco, mentre ai bordi sono fortemente sfumate. In questo modo la regista e il direttore della fotografia (che è anche co-sceneggiatore) riescono a rendere visivamente il senso di limitatezza e parzialità.
L’incidente di Jacek si dimostra per ogni personaggio una prova durissima da superare, che non trova praticamente nessuno pronto psicologicamente o spiritualmente. Proprio su questa inadeguatezza fa spesso leva la comicità del film. Forse manca un po’ di “mordente”, ma è un film che, nonostante faccia leva su un evento incredibile ispirato a un fatto realmente avvenuto in Polonia, vive delle atmosfere e dei non detti fra i personaggi. La sorella di Jacek è la più dinamica e battagliera, le sue azioni dettano il ritmo di Mug – Un’altra vita. Gli altri invece si nascondono e scappano da Jacek, senza avere il coraggio di affrontarlo in alcun modo.
Uno sguardo silenzioso, che racconta la crisi, i limiti e i drammi di un uomo e di una comunità, senza giudizi né risentimenti, riuscendo a far sorridere laddove molti altri avrebbero cercato di far piangere. Per Szumowska la vera sfida era mostrare il comico e il tenero in questa storia, che riesce a raccontare in modo molto personale.