Comprensibile la curiosità legata a un progetto come Unsane di Steven Soderbergh: non tanto per le tematiche affrontate o per il racconto proposto, un thriller dai risvolti vagamente psicologici, quanto piuttosto per l’interessante scelta formale del regista statunitense. Unsane è stato registrato soltanto con degli iPhone, secondo alcune indiscrezioni addirittura nel giro di appena una settimana di tempo. Il film s’iscrive a pieno titolo nel filone che segue la ridefinizione estetica operata dal digitale in ambito cinematografico, abbandonandosi alla portabilità dei mezzi tecnici e alle loro affascinanti modalità di esplorazione dello spazio dell’azione: una via intrapresa già dal Tangerine di Sean Baker (autore del recente Un sogno chiamato Florida) o dallo Sugar Man di Malik Bendjelloul.
Presto detta la sfida di Soderbergh: far sì che il supporto delle riprese non si trasformasse in un misero pretesto e confezionare cioè un episodio che, assommandosi ai suoi simili, riflettesse a sufficienza sul dispositivo digitale e sul suo rapporto con la strutturazione del discorso filmico. Fornire, in altre parole, una prospettiva conscia e sensata su quella che a tutti gli effetti sta diventando una nuova frontiera del cinema, piuttosto che adagiarvisi per motivi meramente economici o sensazionalistici.
Colori, forme, movimenti: il senso dello spazio
È opportuno soffermarsi anzitutto proprio sui caratteri stilistici e formali di Unsane. Da un lato sorprende in positivo la decisione del regista di non abbandonarsi a velleità dal sapore vagamente amatoriale. Ci si discosta così dall’ossessiva voglia di porre l’accento sulla mobilità della “macchina da presa” e si differenzia immediatamente l’estetica del film da quella mossa, sporca, sformata e psicotica di altri episodi tutti al digitale (costretti a inserire il dispositivo nel racconto pur di evidenziarne le caratteristiche, come il Cloverfield di Reeves o più in generale tutto il filone found footage). Le inquadrature di Unsane sono posate e rigide, quasi eleganti: le vediamo scorrere in lunghe carrellate su e giù per i corridoi della clinica psichiatrica un po’ come avveniva con la steadicam dello Shining di Kubrick (o più di recente in The Killing of a Sacred Deer di Lanthimos); alternare campi e controcampi con precisione maniacale e con qualche pizzico di inventiva; non cedere mai il passo ad angolazioni eclatanti o velleitarie.
Non si fraintenda: l’estetica digitale c’è, con tutto il suo sgraziato fascino, ma non viene ribadita con artifici di comodo. Il suo impiego si avvicina più al discorso, per così dire “istituzionale”, dell’analogico e delle sue modalità iconiche: a tal proposito particolarmente affascinante è l’uso che il film fa del colore, sovrapponendo alle tonalità dominanti (dal giallo sinistro e impersonale a uno dei blu più stranianti degli ultimi tempi) i nuclei tematici del racconto. In tutto ciò Soderbergh sembra voler porre l’accento più sulla nuova veste digitale che sui mezzi che la immagazzinano e formulano, rinunciando a un lavoro esplicito e ingombrante sul dispositivo e focalizzandosi invece sulle possibilità del visibile che esso è in grado di portare a schermo: la rinuncia all’analogico diviene cioè lo strumento per approdare a un nuovo senso dello spazio e delle sue caratteristiche.
Lo stalker, la clinica: il senso dello sguardo
Brevemente l’intreccio di Unsane: Sawyer Valentini (Claire Foy) è una donna che si è chiusa in sé stessa e ha cambiato città a causa di uno stalker. Per una serie di sfortunate circostanze si ritrova ricoverata in una clinica psichiatrica: qua incontra, nella veste di infermiere, lo stesso stalker – ma sarà reale o frutto della sua mente malata? Il film parte come una farsa kafkiana, si trasforma in un’acida satira politica e poi si tuffa a capofitto nel thriller psicologico, per culminare infine in una mescolanza organica di tutte e tre le cose. Al centro un’aspra critica al sistema sanitario statunitense, ma anche e soprattutto la rivalutazione di una femminilità che è disposta a tutto pur di trarsi in salvo: sotto-testo costante una riflessione sui social-media contemporanei.
Qui l’uso dell’iPhone per le riprese riecheggia il fulcro del film: in una contemporaneità in cui sembra impossibile non riuscire a mettersi in contatto con la persona che si desidera, in cui quindi uno stalker diventa una presenza ineludibile e onnipresente, in grado di raggiungere ovunque la propria vittima, l’ossessione è l’unico scenario possibile. La possibilità che da persecutore digitale (sui profili Facebook o Instagram, come sottolinea Matt Damon nel suo cammeo) il carnefice si trasformi in una sagoma ubiqua anche all’interno dello spazio reale è tutt’altro che fantasiosa, più concreta che mai. Allora la scelta del dispositivo mobile specchia il tema centrale di Unsane: la tragica facoltà di un incubo digitale di affiorare all’interno di uno spazio tangibile (per giunta istituzionalizzato).