We are who we are è la prima avventura televisiva di uno dei registi italiani più apprezzati degli ultimi anni, Luca Guadagnino, che ha accettato di girare per il piccolo schermo. Il regista affronta ancora una volta dopo Chiamami col tuo nome una storia di trasformazioni e consapevolezze che travolgono gli abitanti di una base militare americana in Italia. Guadagnino e il cast ci hanno parlato di questa incredibile esperienza insieme agli sceneggiatori Paolo Giordano e Francesca Manieri, il produttore Lorenzo Mieli e l’ Executive Vice President Programming di Sky Italia, Nicola Maccanico.
We are who we are
Dal 9 ottobre andrà in onda su Sky Atlantic e NowTV la serie Sky-HBO che porta in televisione le inquietudini dell’adolescenza che esplodono in una base militare americana nei pressi di Padova. In questo microcosmo si condensano storie di vita profondamente diverse e complesse, narrate dal punto di vista di un gruppo di ragazzi e dei loro genitori. Tutto comincia infatti quando Fraser (Jack Dylan Grazer) si trasferisce nella base con la madre (Chloe Sevigny) e conosce Caitlin (Jordan Kristine Seamòn), una ragazza spavalda che nasconde i dubbi e i problemi tipici della propria età dietro una facciata disinibita. Attorno a loro ruota un universo di personaggi multietnico e internazionale, foriero di conflitti, insicurezze e grandi cambiamenti. Guadagnino scrive e dirige una serie di formazione, di ricerca di se stessi, inserendola in una cornice estetica che sprizza bellezza e lirismo nel puro stile del regista.
Luca Guadagnino per la televisione
Il regista siciliano che ha conquistato il mondo non ha fatto mistero della grande emozione che ha provato a lavorare per la televisione, un esordio che ha vissuto con libertà e spensieratezza, con l’entusiasmo della prima volta. Il risultato finale è definito dal cineasta “ermafrodita”, un ibrido tra serie tv e film, con un ritmo ben scandito negli otto episodi in cui si snoda la narrazione ma anche fruibile come una lunga opera unica. Il lavoro del pluripremiato cineasta ha raccolto il plauso del cast, di tutto lo staff tecnico e di Sky. “Fare esordire Luca in una serie è stato un privilegio” ha infatti dichiarato Maccanico, che ha sottolineato la grande qualità della produzione e l’attenzione per i dettagli del regista.
Guadagnino ha motivato la scelta di un non-luogo chiuso e astratto come la base militare: “E’ un luogo piccolo ma che presenta delle caratteristiche che possono essere declinate in maniera universale rispetto, per esempio, all’identità americana. Con l’aggiunta che, essendo una base militare presenta un altro livello molto interessante, che è quello della disciplina, della risposta ai comandi o della trasgressione degli stessi. In questo senso la base può rappresentare una parte per il tutto e essere l’America e dimostra l’impenetrabilità tra il fuori e il dentro.” Tutto questo senza rinunciare ai “cieli veneti” che tanto fascino esercitano sul regista.
Anche la decisione di ambientare la serie nel 2016 è stata guidata dall’esigenza di restare autentici. “La scelta è stata fatta principalmente per una questione di controllo- ha detto il regista- se vogliamo parlare di contemporaneità abbiamo bisogno di una distanza minima per far sì che la realtà si integri in maniera organica con la narrazione. Il semestre delle presidenziali che sono sfociate con l’elezione di Trump era un’occasione troppo ghiotta per non essere colta e per permettere a ciascun personaggio di vedere come riflette o come ignora ciò che sta accadendo.”
Metafisica dell’innamoramento
We are who we are è interpretato da un cast inusuale, per la selezione del quale è stata “scomodata” la direttrice casting di Stranger Things, Carmen Cuba, cercando di rispecchiare il melting pot americano. Luca Guadagnino ha trovato presenze interessanti, non banali, unendo star affermate come Chloe Sevigny a volti giovanissimi, anche alla prima esperienza attoriale, preoccupandosi soprattutto di essere autentico nella rappresentazione. Un punto molto delicato, questo, per una serie che tratta di trasformazioni e autocoscienza, sul filo conduttore dell’innamoramento sia scenico che reale. Il racconto di una storia d’amore contemporanea si intreccia a quello della crescita personale “in una sovrapposizione di trasformazioni” come l’ha definita Mieli, per raccontare il cuore dell’adolescenza come qualcosa che resta dentro ciascuno, in un modo che trascende l’interesse del solo pubblico teen e coinvolge anche gli adulti. Continua Mieli: “Volevamo raccontare l’esplosione di una dimensione, quella del corpo e del desiderio, che molto intelligentemente invade e pervade anche i personaggi adulti.”
La freschezza, la libertà e l’entusiasmo giovanili, tipici di quell’età così spensierata eppure tormentata, coinvolgono ogni aspetto di We are who we are. In attesa di sapere se l’innamoramento che ha coinvolto tutto lo staff riesca a raggiungere il pubblico, il regista si è già detto disponibile a realizzare una seconda stagione.