Il remake dello storico ed omonimo musical di Robert Wise, West Side Story, diretto da Steven Spielberg è finalmente pronto ad arrivare nelle sale. In Italia uscirà per la precisione il 23 dicembre, mentre in USA è uscito il 10 dicembre. Una produzione lenta e travagliata e un rimando nelle sale di un anno causa pandemia da Covid-19, il film è uscito esattamente sessant’anni dopo il suo omonimo. Ma com’è quindi questo WSS di Spielberg? Ne parliamo in questa recensione su Moviesource.it
Non proprio un remake
Il film, candidato a 11 Critics’ Choice Award e 4 Golden Globe (tra cui miglior regia, film musicale, e attrici) non è proprio un remake dell’originale di sessant’anni fa, più che altro una rilettura in chiave moderna dei testi musicali e dei problemi sociali e di classe dell’America contemporanea. Mai, infatti, “America” la nota canzone di circa metà film, che sottolinea pregi e difetti del vivere negli Stati Uniti, è stata così attuale. I portoricani capeggiati da Bernardo (un macho David Alvarez) non possono sottostare alle regole e alle condizioni di vita dettate dalla società razzista e classista. In tutto ciò gli yankee Jets, guidati da Riff, spadroneggiano per il controllo del West Side. In tutto ciò l’amore tra Tony (un intonato, ma poser, Ansel Egort) e Maria (una mediocre Rachel Zegler) sboccia. La situazione contrastante porta guerra tra le due bande. Non è un caso che il musical originale sia ispirato ai Montecchi e Capuleti di William Shakespeare e che la drammaturgia segua la linea ben precisa tracciata dal Bardo. La spontaneità di Spielberg è stata applicarla all’America Post-Trump. Non a caso la scena del balcone tra Tony e Maria mostra i due che si parlano attraverso una grata.
Insopportabili lens-flare
Se da una parte abbiamo buone coreografie e rese interessanti, ma soprattutto, diverse delle canzoni proposte dalla versione originale, dall’altra abbiamo una fotografia desaturata e lens-flare veramente invadenti per tutto il film. West Side Story è un teen movie, principalmente, guidato da un cast giovane, eccetto il personaggio di Valentina (Rita Moreno che torna anche in questo WSS), ma è come se la regia di Transformers incontrasse quella di After. Le situazioni proposte infatti, mostrano attori/attrici che letteralmente assumono pose, per poi essere colpiti dai lens-flare anche nei primi piani. Il tutto risulta inequivocabilmente cringe.
Un film debole
La debolezza di West Side Story, nonostante le sue grandi ambizioni sta proprio nella resa Spielberghiana, così classica e allo stesso tempo così tendenzialmente forzata a voler risultare attuale che si perde in una strana schizofrenia di regia. La performance di Ariana DeBose, la più convincente di tutte, salva il resto del cast che risulta macchiettistico e caricaturale. Chiara la tendenza a voler riprodurre quell’atmosfera anni ’50 sia nel ballo che nella resa attoriale, tuttavia, i volti su cui sono plasmati questi personaggi non risultano appieno efficienti.
Era un remake voluto?
Spielberg ha dichiarato di voler fare questo film da quando era bambino e in esso infatti, si vede l’amore e l’empatia che il regista mette. Tuttavia risulta mancante quel coraggio nel voler osare di più in un film del genere, che non deve temere il confronto con il pluri-vincitore agli oscar di sessant’anni prima. Il West Side Story di Spielberg riesce ad avere una propria identità, non siamo sicuri però che sia quella che il regista voleva attribuirgli. Ci sono dei barlumi di autorialità, ma sono molto pochi e codificati e il film si discosta parecchio dai musical più atipici che hanno distinto colleghi di Spielberg come Francis Ford Coppola (con il suo Un sogno lungo un giorno) o Brian DePalma (con Il fantasma del palcoscenico).
Insomma questo film al grande pubblico forse piacerà così come agli Oscar, dove proverà a fare incetta di premi, ma cercare di mantenere un’obiettività critica di fronte ad una vera e propria trasformazione di un classico è quello che si dovrebbe fare, soprattutto da chi grida istintivamente al capolavoro.